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L'anno più difficile della mia vita (ovvero, cosa mi ha fatto la privazione del sonno)

Carlotta Cerri
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Ho scritto questo post molto tempo fa, più di 8 mesi, ma non mi è mai sembrato il momento di pubblicarlo. Non sono più pronta ora, sono ancora su una montagna russa di emozioni e non vedo ancora la luce alla fine di questo tunnel della privazione del sonno, ma oggi sono più forte e più sicura. Così ho deciso di finirlo — ed eccolo qui. Non si tratta di consigli o trucchi e forse non è nemmeno molto coerente. Sono solo i pensieri di una mamma che apre il cuore e condivide.


Non dormo più di due ore di fila alla volta da 18 mesi. Il primo anno, nonostante provassi grande e inspiegabile tristezza, frustrazione e rabbia, raramente ho pianto. Quando avevo voglia di piangere, inghiottivo le lacrime, razionalizzavo (come posso non essere felice con due bambini sani e meravigliosi?) e costruivo muri intorno a me. Alla fine, la tristezza scompariva ed ero di nuovo “forte”.

Fino alla volta dopo, in cui avrei dovevo far fronte a tutta la tristezza accumulata e la reprimevo di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. Per molto tempo.

Ero diventata il mio proprio vaso di Pandora.

A un certo punto — e a volte stufa di consigli non richiesti — ho deciso di smettere di annoiare i miei amici e la mia famiglia con i miei problemi. Se potevo evitavo le riunioni sociali o mi mettevo sulla labbra un sorriso e sostenevo conversazioni amichevoli in modalità zombie.

Non mi sentivo felice e ho iniziato a prendermela con l’unica persona che lo viveva tutto con me, Alex.

Ho iniziato a lamentarmi.

Di tutto. Di come non contribuisse abbastanza in casa. Di come non contribuisse nel modo giusto in casa. Di quel bucato che ha sbagliato. Di quel sacco della spazzatura che è rimasto in cucina per giorni. Di come abbia usato l’asciugamano sbagliato per asciugare i bambini dopo il bagno. Di come è possibile che non abbia preparato anche il riso con quel pollo al curry che ai bambini non piacerà di sicuro. E così via.

Razionalmente, apprezzavo tutto il suo aiuto, ma vedevo difetti in tutto. E sempre.

Alex è la persona più ottimista, positiva e paziente che conosca, ma poco a poco, lamentela dopo lamentela, l’avevo rotto. La sua positività iniziò a svanire. Mi dava addosso, era impaziente e intollerante rispetto alle mie lamentele e ai miei stati d’animo. Non aveva più empatia nei miei confronti — l’unica cosa di cui avevo disperatamente bisogno.

Gli effetti si sono ripercossi su tutti gli ambiti del nostro rapporto — il nostro prendersi cura l’uno dell’altro, la nostra complicità, la nostra amicizia, la nostra comunicazione, le dimostrazioni d’affetto, la nostra vita sessuale già in bilico. Più provavamo a risolverlo, a parlarne, più ci allontanavamo. Non parlavamo più la stessa lingua. Ogni discussione finiva in un “accettiamo di non essere d’accordo” o andando a letto arrabbiati: lo rattoppavamo al mattino, facevamo finta di niente o ci scusavamo a vicenda ed eravamo pronti a ripartire.

Tranne che io non lo ero. Stavo solo sopprimendo di più, ingoiando più tristezza.

Diverse notti mi ritrovavo a cercare su Google “sintomi di depressione postpartum” — davvero questo mio umore poteva essere causato solo dal non dormire? Leggevo forum per trovare risposte a domande come “come sai quando il tuo matrimonio è finito?”, “perché non sono felice della mia vita perfetta?”. Stavo annegando dentro, era il tratto più oscuro del tunnel.

Poi una notte…

qualche mese fa, dopo un’altra discussione con Alex in cui saltavamo da un argomento all’altro, puntando il dito e facendoci vicendevolmente del male verbale, mi ha detto — lacrime agli occhi — quattro parole che non dimenticherò mai.

Mi manca mia moglie.

Seduta lì immobile, le lacrime cominciarono a rigarmi le guance e tutto ciò che riuscivo a pensare era: manca anche a me. In quel momento mi resi conto di quanto fossi cambiata e di quanto mi mancasse la vera me — e ancora di più la nostra squadra. Singhiozzai sulla sua spalla per quello che sembrò un’eternità e ci tenemmo stretti come non facevamo da molto tempo.

Quella notte capii due cose:

  • Non ero l'unica a soffrire. Anche Alex stava facendo fatica. Per diversi motivi e mostrandolo in modi diversi, ma anche lui era triste. Vederci vulnerabili ci ha fatto sentire di nuovo vicini dopo tanto tempo. Troppo spesso vogliamo nascondere la nostra vulnerabilità, ma dimentichiamo che la vulnerabilità non è debolezza. È forza. Mostra che sei in sintonia con te stesso ed è uno strumento potente per connettere con gli altri.
  • La privazione del sonno è fuori dal mio controllo, ma la mia reazione è una mia scelta. Potevo continuare a lamentarmi e sentirmi triste, incolpando Emily che non dormiva, Oliver che non mi ascoltava, la poca empatia di Alex o il tempo che non avevo per me e il mio lavoro. O potevo svegliare la guerriera in me e mandare al diavolo la privazione del sonno.

Spesso attribuiamo la colpa della nostra tristezza, rabbia, frustrazione a fattori esterni e in parte abbiamo ragione: spesso ciò che accade nella vita non è sotto il nostro controllo. Ma il modo in cui reagiamo è una nostra scelta — e abbiamo sempre una scelta.

Quella notte non ha cambiato molto nella nostra situazione. Nonostante alcuni progressi recenti, Emily sta ancora dormendo male. Io e Alex abbiamo lavorato sodo e migliorato notevolmente la nostra relazione, ma a volte perdiamo il buon cammino e anche solo una frase può rimandarci nella selva oscura per giorni. E per quanto mi riguarda, il non dormire influenza ancora molto il mio umore e sono ancora in precario equilibrio tra sanità mentale e follia (ma in fondo, non è forse lo stato naturale della maternità?).

Ma una cosa, quella notte l’ha cambiata. In qualche modo, le parole di Alex hanno parlato direttamente alla guerriera in me e hanno rilasciato quell’ancora che mi teneva a fondo.

Da allora, ho smesso di trovare scuse e sentirmi triste per me stessa e ho ricominciato a vivere pienamente: scrivere, lavorare, essere produttiva, ballare, mangiare più sano, darmi delle sfide per evolvere come individuo. Oggi mi sento una persona migliore, più forte, più concentrata, più sicura. Mi sento vulnerabile in ogni momento, ma invincibile allo stesso tempo. Sento di essere diventata la donna che aspettava in me.

E soprattutto, ho smesso di reprimere e iniziato a lasciare sfogare tutto, bene o male e senza sensi di colpa per essere umana: un giorno ho lasciato andare un urlo “aaaahhhhhhh” a squarciagola in macchina davanti ai bambini perché non ne potevo più di litigare con mia madre; un altro giorno ho pianto come una bambina perché un’amica mi ha svelato una buona notizia; qualche giorno fa ho singhiozzato per mezz’ora ascoltando “Lost Stars”. La lista è lunga, le emozioni tante.

E sembrerà strano, ma mi sento più in controllo delle mie emozioni ora di quanto non lo sia mai stata prima: il pensiero di potermi permettere di lasciare briglia sciolta alle mie emozioni mi fa sentire più stabile mentalmente ed equilibrata emotivamente (come quando decidi di non mangiare più dolci e sembra che tutto il tuo corpo tremi dalla voglia di una torta, ma se decidi che li puoi mangiare quando vuoi, fai meno fatica a scegliere di non farlo. Ti è mai successo?).

Quindi forse questa è la fine del tunnel, non il tunnel della privazione del sonno, ma un tunnel diverso, inaspettato, di crescita personale e capacità di ripresa. E forse è vero quello che dicono, che alla fine di ogni tunnel c’è sempre una versione più forte e più resiliente di te stessa, devi solo crescere le palle ed uscire.

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