Sono una madre sicura perché seguo i miei bimbi

Carlotta Cerri
26 aprile 2017
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La mia mamma sta vivendo con noi in queste settimane. È bello averla qui, è bello avere pranzo e cena sempre pronti (scommetto che Alex apprezza la “vacanza” dai fornelli) ed è certo bello che Oliver ed Emily conoscano la loro nonna. Ma è anche difficile avere qualcuno che “guarda” la tua vita 24 ore al giorno. Soprattutto perché con l’osservazione, il più delle volte, arrivano i consigli—è naturale e noi sappiamo che lei ce li dà con amore.

Dovresti mettere Emily a dormire nella sua culla durante il giorno, perché così si abitua a dormire in braccio e a lungo andare si crea un problema di attaccamento.

Non dovresti sempre consolare Oliver, ha bisogno di imparare a vivere la sua tristezza anche da solo. Il mondo è difficile là fuori, e non voi non sarete sempre lì per lui.

Non dovresti sempre prendere Emily in braccio quando piange. Ai bambini fa bene piangere a volte.

Oliver è troppo stimolato. Cucina con voi, pulisce con voi, ha un sacco di attività durante il giorno… non credo gli faccia bene.

E così via.

Se Emily fosse il mio primo figlio, mi sentirei senz’altro combattuta tra quello che io sento sia giusto e quello che mia madre mi consiglia. Ma dopo questi due anni di maternità, mi sono resa conto di una cosa fondamentale: sono una madre sicura di sé e conosco i miei figli meglio di chiunque altro.

Quindi, se da una parte è interessante sentire che cosa pensa mia madre in base alla sua esperienza di 30 anni (a cui ovviamente do valore), d’altra parte mi è chiaro che sono una mamma molto diversa da lei (anzi, da qualsiasi altra mamma) e che la mia sicurezza deriva dal vivere secondo una regola principale: segui il bambino.

Se conforto sempre Oliver quando piange è perché ha bisogno di me e risponde meglio quando lo faccio. È un bambino altamente sensibile—non solo sensibile nel modo in cui io e te pensiamo alla sensibilità, ma con un tipo di personalità specifica che non conoscevo prima di leggere “The Highly Sensitive Child” di Elaine N. Aron (se ti interessa, sto preparando un post su questo).

E poi ha due anni. E se da un lato questo significa che è nel miglior periodo sensoriale della sua vita e ha bisogno di stimoli come dell’aria che respira, d’altra parte ha SOLO due anni: avrà una vita intera per vedere quanto il mondo sia duro là fuori. Ora tutto ciò che ha bisogno di sapere e sentire è che io sono sempre lì per lui, quando piange, quando si lamenta per quello che a me sembra una sciocchezza, quando è troppo stanco per “comportarsi bene”.

Allo stesso modo, ci sono molte ragioni per cui lascio che Emily dorma in braccio a me, ma la principale è perché la seguo. Credo nell’amore e nel contatto, non credo che i bambini “si abituino a stare in braccio”—penso che questo sia uno di quei preconcetti della vecchia scuola di cui le nuove generazioni di genitori dovrebbero sbarazzarsi. Per me è abbastanza facile: Emily ha bisogno di dormire, cerco di metterla nella culla, si sveglia e piange, la prendo in braccio e la lascio dormire addosso a me. La seguo. Lo faccio perché posso, perché la mia situazione lavorativa me lo permette, perché non ho paura che “si abitui”, ma soprattutto perché credo che sia il modo migliore di essere genitore. Mi piacerebbe poterla mettere giù e pulire/lavorare/riposare? Certo. E un giorno potrò farlo.

E ancora una cosa—ed è qualcosa che da quando Oliver ha iniziato la sua “fase papite” mi tocca molto. Emily è probabile che sia il mio ultimo bebè, e anche se sono sicura della mia preferenza di non avere più figli, è una decisione dolorosa: nessuno avrà mai più bisogno di me tanto quanto lei ha bisogno di me in questo momento; nessuno vorrà mai più stare con me tanto quanto lo voglia lei in questo momento; nessuno troverà mai più vero conforto SOLO tra le mie braccia. Sono motivi egoistici, ma non per questo meno veri: Oliver ha solo due anni e rifiuta già i miei baci e abbracci, se non ha voglia di coccole; preferisce il suo papà per addormentarsi la sera; mi dice “No mamma” quando cerco di aiutarlo a fare qualcosa che sa fare. Non è più il mio bambino piccolo, e se il tempo continua a volare così, domani se ne andrà di casa e si farà una sua famiglia.

Credo che quello che sto cercando di dire è che quando guardo i miei figli, per quanto piccoli, non vedo solo bambini che devono essere messi a dormire o lavati o alimentati; non vedo sfide da superare dentro certi limiti di tempo (come far dormire Emily nella sua culla durante il giorno, o insegnare ad Oliver a padroneggiare le sue emozioni da solo).

Vedo minuscole persone nella loro interezza con le quali sto costruendo un rapporto, persone con le quali voglio trascorrere più tempo possibile, persone che voglio conoscere in tutta la loro bella complessità.

E oggi è chiaro per me che l’unico modo in cui posso farlo è il mio modo, il mio essere madre, con i miei valori, i miei principi, le mie credenze, i miei difetti, i miei sbagli, ma soprattutto, il mio amore e la mia comprensione.

Ecco perché seguo i miei figli, e non cerco di fare in modo che loro seguano me: sono loro ad insegnarmi ogni giorno ad essere genitore, e nel processo, mi rendono una madre migliore e più sicura di sé.

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Carlotta
Ciao! Sono Carlotta, creatrice de La Tela e viaggiatrice a tempo pieno insieme alla mia famiglia, Alex, Oliver ed Emily.

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