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Riflessioni su alcuni miti del multilinguismo / con Najwa Saady

Carlotta Cerri
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In questo post vi offro le parole di Najwa Saady, Coach per Famiglie Multilingui che ha creato il sito e progetto Armonia Multilingue. Ti invito a darci un'occhiata.

Quando Najwa è capitata su un mio vecchio post sull'importanza dei primi tre anni di vita nel multilinguismo (in cui cito le parole di Silvana Quattrocchi Montanaro, te lo lascio nei post consigliati qui sotto), ha sentito il bisogno di scrivermi per condividere i suoi studi, la sua conoscenza e la sua esperienza. Apprezzo moltissimo chi dedica tempo a ciò in cui crede con pazienza e gentilezza — trovo sia il modo migliore per diffondere consapevolezza — e quindi voglio condividere le sue parole in questo post, perché come mi ha scritto lei: «Smontare quelle credenze che rallentano o ostacolano la crescita multilingue e aiutare i genitori nel crescere i loro figli multilingui in modo efficace, rispettoso ed armonico è la mia missione, e passa anche attraverso la sensibilizzazione di chi è attorno a me».

Ecco le parole di Najwa che riflette sulla citazione della Montanaro e nelle lampadine troverai le mie riflessione e la nostra esperienza: molte delle riflessioni di Najwa sono anche le mie, per esperienza personale o di famiglie multilingue che ho conosciuto in giro per il mondo.  

Najwa non ha letto tutto il libro della Montanaro, ma ha voluto spiegarmi perché trova la citazione della dott.ssa Montanaro problematica per i tempi odierni e questi sono i punti per lei più rilevanti:

I primissimi anni di vita

Montanaro scrive: La seconda (terza, quarta…) lingua deve essere presente nell'ambiente del bambino nei primissimi anni di vita. 

Najwa scrive: Quel "deve" trasmette l'idea che c'è un tetto rigido per il multilinguismo. È vero, il cervello dei bimbi nei primi anni di vita è estremamente plastico e possono acquisire più lingue come ne acquisiscono una sola, in modo inconscio e naturale. Sottoscrivo anch'io "the earlier the better", prima è meglio è. Questo non significa, però, che le lingue non possano essere acquisite a livello "simil-nativo" anche in un secondo momento. Cambiano le dinamiche di apprendimento, ma è possibile e a volte ugualmente vantaggioso, se abbiamo una visione a lungo termine. (per approfondire: Bilingualism and the brain

💡Nella mia esperienza diretta io oggi parlo a livello simil-nativo inglese e spagnolo, che in alcuni contesti sono lingue in cui mi esprimo meglio dell'italiano: entrambe le ho imparate dai 20 anni in su. Questo sicuramente non toglie l'importanza dei primi tre anni di vita, sia per lo sviluppo, sia per la lingua.

Parlare sempre e solo una lingua?

Montanaro scrive: I bambini potrebbero arrivare ad assorbirle e usarle tutte facilmente, senza alcuno sforzo, a condizione che ciascuna persona parli con loro sempre e soltanto la sua lingua. Non vi sono difficoltà nell'apprendimento […] senza bisogno di tradurre e senza l'accento della loro lingua materna. 

Najwa scrive: questa frase trasmette l'idea che se parli sempre solo una lingua il bambino acquisisce la lingua come un monolingue (senza difficoltà, né accento, etc). Non è esatto. Il bambino, oltre all'esposizione, ha bisogno di sentirsi motivato (per necessità, divertimento, relazione affettiva…) a parlare quella lingua, altrimenti in molti casi sceglie di rispondere nell'altra lingua, in cui si sente più sicuro. Inoltre, i bambini multilingui hanno spesso accento in una o più delle loro lingue. Questo non li rende meno multilingui, ma lasciar intendere che non c'è accento e non esistono difficoltà di apprendimento non è preciso. (per approfondire: Bilingual and accents

💡 Vero anche per noi: quando io sono passata a parlare più in inglese con Oliver ed Emily, loro hanno iniziato a rispondermi sempre in inglese. Ora che sono più grandi, li riporto spesso sull'italiano ricordandogli il loro desiderio di poter comunicare con i nonni: questa è la loro motivazione. Se potessi tornare indietro, però, sceglierei di continuare a parlare solo e unicamente in italiano con loro: hanno iniziato a rispondermi in inglese quando io ho iniziato a essere meno coerente con l'italiano. Dopo aver provato entrambi i metodi, ho notato che dare il focus all'italiano nella mia comunicazione con loro ha un'efficacia maggiore per noi.   

OPOL one person, one language

Montanaro scrive: Durante i primi tre anni è assolutamente essenziale che ogni lingua diversa venga parlata sempre dalla stessa persona: se la madre, il padre, o altre persone presenti nell'ambiente parlano perfettamente due o più lingue, devono decidere quale lingua usare con il bambino fin dalla nascita e parlare sempre quella. 

Najwa scrive: Non sono sicura di capire cosa c'entri "sotto i tre anni" in questo caso, ma l'OPOL non è e non viene più considerato l'unica strategia efficace e infallibile per crescere bambini bilingui. Gli studi degli ultimi 10 anni almeno si sono allontanati da questa visione e anzi viene spesso sottolineato in letteratura che ciò che è importante è garantire il più ampio e ricco input alla lingua minoritaria. La strategia "vincente" (se così vogliamo chiamarla) dipende da come è possibile offrire questo input in modo regolare e quindi dipende dalla situazione specifica di ogni famiglia. Esempio: papà tedesco, mamma italiana, vivono in Italia. Supponiamo che la mamma sappia parlare anche tedesco. Ci sono più possibilità di successo se la mamma sceglie di parlare tedesco con il bimbo (anche se non è la sua lingua dominante), almeno in alcuni contesti, e quindi adottare un MLAH (Minority Language At Home) piuttosto che un OPOL (per approfondire: One-Person-One-Language and bilingual children).

💡 Per chiarire, in questo caso, la dottoressa Montanaro parla dei “primi tre anni” perché, in accordo con gli studi sullo sviluppo dei bambini, quelli sono gli anni in cui la mente assorbe facilmente tutto ciò che li circonda senza sforzo e senza “sceglierlo”. È come imparare a parlare: un bambino che cresce in un ambiente consono al suo sviluppo non può scegliere di non impararlo, è naturale che succeda. Noi, come famiglia, abbiamo trovato grande benefici nel metto OPOL, ma ora che i bambini sono più grandi lo usiamo con più flessibilità. 

La lingua fa parte integrante della persona

Montanaro scrive: Il linguaggio è parte integrante di una persona, come tutte le caratteristiche somatiche, e non può essere modificata senza produrre un senso di grande insicurezza nella mente del bambino, con conseguente difficoltà e arresto della comunicazione. 

Najwa scrive: Anche se comprendo da dove arrivi questa affermazione (se per 3 anni ho sempre parlato a mio figlio in italiano e all'improvviso comincio a parlargli in igbo, sicuramente creerò uno shock), è molto rigida e drastica. Ci sono molte sfumature di grigio in mezzo. Si può cambiare lingua di comunicazione e si può parlare più di una lingua. I bambini come ben dice la Dott.ssa Montanaro sono molto smart e sono in grado di comprendere che una lingua non è solo legata alla persona, ma anche al contesto, alla situazione e alle esigenze di uno specifico momento (per approfondire: Family Language Strategies in Multilingual Families).   

È vero che il linguaggio è parte integrante di una persona. Ma questa affermazione funziona benissimo anche al plurale "Le lingue sono parti integranti di una persona" e anche voi, come famiglia, ne siete la prova. Ci sono genitori multilingui che viaggiano e/o usano più lingue ogni giorno. Ci sono genitori che sono nati e cresciuti in Paesi dove le lingue ufficiali sono 2 o 3 e parlano queste lingue mescolandole spesso tra loro. Chiedere a questi genitori di scegliere e parlare una sola lingua può essere causa di stress inutile. La loro identità è plurale e merita di essere espressa tramite tutte le lingue che sentono di voler usare con i propri figli (per approfondire: Emotions in more than one language).

💡Mi ritrovo molto nelle parole di Najwa e io ne sono un esempio: oggi l'italiano, lo spagnolo e l'inglese sono tutte parti integranti della mia identità e ne modellano anche la mentalità e il comportamento (è normale esprimersi diversamente in diverse lingue, io ci scherzo spesso dicendo che è quasi come avere diverse personalità). Per l'italiano, però, essere un po' più “rigida” con i miei figli è stato fondamentale: viaggiando in continuazione e trovandoci quasi ogni mese in un Paese e lingua diversa, in cui, però, potevamo comunicare in inglese, la tendenza a passare all'inglese è stata forte e mantenere grande coerenza con l'italiano (da parte mia) è stato fondamentale per Oliver ed Emily.

Una riflessione di Najwa sul “vero bilingue”

Dire "veramente bilingui" viene da un mindset che pone il monolinguismo come standard. Deriva dalla credenza che il "vero bilingue" sia colui o colei che parla entrambe le lingue come un nativo (monolingue). La definizione di bilingue e multilingue che condivido e sento più onesta, è quella di François Grosjean (2008):

Bilingue è colui o colei che usa due o più lingue (o dialetti) nella sua vita quotidiana.

Questa definizione non è solo, a mio avviso, più corretta, ma è anche più inclusiva perché dicendo "usa" accoglie anche i bilingui passivi (che comprendono, ma non parlano tutte le loro lingue), i bilingui asimmetrici (che hanno competenze linguistiche diverse tra le due lingue), i bilingui tardivi (che hanno acquisito la seconda lingua in età più tardiva), etc.

Morale della storia

Come nell'educazione, anche nel multilinguismo è importante non fermarsi a un solo metodo, un solo libro, un solo ricercatore. Come scrive Najwa: «mi dispiacerebbe che altri genitori prendessero alla lettera affermazioni della dottoressa Montanaro che, alla luce degli studi recenti e di esperienze delle famiglie multilingui in continuo aumento, si sono rivelate ridotte».

E ci dà un ultimo consiglio: «infine, se con questa mail ti ho messo una pulce nell'orecchio e cercassi letteratura a cui fare riferimento, ti consiglio gli studi di Annick de Houwer, che è tra le pioniere di un nuovo e armonico approccio al bilinguismo (e multilinguismo), a cui io stessa mi ispiro per la crescita dei miei bimbi e il mio lavoro.

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